
Crisi Kodak: una lezione di mancata visione
Ogni crisi aziendale racconta una storia di decisioni prese, o evitate, che hanno modellato il destino di un brand.
La crisi Kodak riemersa sui media in questi giorni non è solo la vicenda di un’icona della fotografia alle prese con bilanci in difficoltà; è anche un caso di studio su come il timore del cambiamento e la mancanza di visione strategica possano trasformare un’innovazione rivoluzionaria in un’occasione mancata.
Timeline: 7 tappe chiave nella storia di Kodak
Dalla fondazione nel 1880 alla crisi attuale, Kodak ha attraversato momenti di straordinaria innovazione e scelte strategiche controverse. Questa timeline ripercorre le 7 tappe che hanno segnato il destino dell’azienda, tra successi globali, rivoluzioni tecnologiche e occasioni mancate.
Anno | Evento chiave |
1880 |
George Eastman fonda Eastman Kodak Co., rendendo la fotografia accessibile al grande pubblico. |
1975 |
Steven Sasson sviluppa la prima fotocamera digitale funzionante |
1978 |
Kodak brevetta la “electronic still camera”, senza però commercializzarla |
1980 |
Nasce la prima reflex digitale professionale costruita in Kodak; il marketing blocca il lancio. |
2007 |
Scade il brevetto chiave sul digitale, aprendo il mercato ai concorrenti. |
2012 |
Kodak dichiara bancarotta e si ritira dal settore fotografico consumer. |
2025 |
L’azienda segnala debiti in scadenza entro 12 mesi e inserisce un avviso di “going concern” |
Il paradosso Kodak: inventare il futuro e ignorarlo
L’ingegnere Steven Sasson, allora ventiquattrenne, lavorava in Kodak su un componente appena inventato, il CCD (charge-coupled device), in un progetto che non sembrava particolarmente strategico. In un’intervista al New York Times ammise con ironia che quell’assegnazione “forse serviva a tenermi lontano dai guai”.
Il CCD era un sensore capace di catturare la luce in due dimensioni e convertirla in un segnale elettrico. All’epoca presentava limiti significativi: non esisteva un modo efficace per archiviare le immagini, un vincolo che Sasson trovava frustrante. Decise quindi di sperimentare con un approccio ancora poco diffuso: la digitalizzazione, ovvero la trasformazione degli impulsi elettrici in numeri.
Per realizzare il processo dovette compiere un ulteriore passo tecnologico: trasferire l’immagine in una memoria RAM e poi registrarla su un nastro magnetico digitale. Il risultato fu un ingombrante prototipo azzurro, una sorta di macchina “assemblata” con componenti eterogenei. Era un sistema pesante e spartano, ma rappresentava la prima fotocamera digitale della storia: acquisiva le informazioni in formato digitale, le registrava su nastro e le mostrava su un televisore.
Seguendo la Legge di Moore, Steven Sasson stimò che il digitale avrebbe raggiunto la qualità della pellicola in 15–20 anni e ipotizzò persino la trasmissione delle immagini tramite linee telefoniche. Nonostante l’evidente potenziale, il management Kodak reagì con freddezza: una rivoluzione a lungo termine non interessava a dirigenti focalizzati sui risultati immediati e su un modello di business basato sul monopolio della pellicola e della stampa, redditizio da quasi un secolo.
Nel 1978 arrivò il brevetto della electronic still camera, ma fu tenuto segreto. Nel 1989, con Robert Hills, Sasson sviluppò la prima reflex digitale moderna, anch’essa bloccata dal marketing per paura di cannibalizzare il core business. Il brevetto fruttò comunque royalties milionarie, ma Kodak rimase spettatrice della rivoluzione che aveva contribuito a inventare, fino alla scadenza del brevetto nel 2007, quando il mercato era ormai in mano ai concorrenti.
Quando il CEO (o il marketing) sbaglia
Nella mia esperienza personale, ha dovuto prendere decisioni in condizioni di incertezza, con dati parziali e tempi ristretti, spesso sotto la pressione della necessità di obiettivi immediati.
In questi contesti, ho imparato che i fallimenti più significativi raramente derivano da errori tecnici o da valutazioni operative errate.
Il vero punto critico è la visione strategica, o meglio, la sua assenza.
È facile concentrarsi sulla gestione quotidiana, sugli indicatori di breve termine e sulle emergenze del momento, trascurando l’analisi di dove il mercato, la tecnologia o i comportamenti dei clienti stiano realmente andando.
Una visione limitata porta a scegliere ciò che funziona oggi, ignorando segnali che richiedono scelte coraggiose per domani.
La differenza tra un’azienda che cresce e una che scompare non è solo la qualità dei suoi prodotti, ma la capacità di vedere oltre, anticipare scenari e prepararsi a più scenari possibili.
I rischi più comuni che dettano scelte strategiche miopi, mancanza di un pensiero di lungo periodo o difficoltà di prendere decisioni scomode sono:
- Paura di cannibalizzare il core business – In molte aziende consolidate, ogni innovazione che minaccia il prodotto o servizio principale viene percepita come un pericolo. Si preferisce rinviare o ridimensionare le nuove idee per proteggere il fatturato consolidato, senza considerare che questa strategia può lasciare spazio ai concorrenti e compromettere la posizione futura sul mercato.
- Metriche inadeguate – Valutare un’idea nuova con gli stessi KPI di un prodotto maturo è un errore frequente. Le innovazioni richiedono parametri specifici: crescita potenziale, capacità di aprire nuovi mercati, impatto strategico. Misurare solo sulla redditività immediata significa, spesso, dover scartare le nuove idee di business.
- Bias di conferma – Chi prende decisioni tende, consciamente o meno, a privilegiare i dati che confermano le proprie convinzioni. Questo meccanismo psicologico porta a ignorare segnali di mercato, feedback dei clienti o trend tecnologici che non si allineano alla narrativa consolidata.
- Assenza di scenario planning – Non sviluppare e analizzare scenari alternativi, inclusi quelli “poco probabili ma ad alto impatto”, lascia l’organizzazione impreparata a cambiamenti rapidi. La pianificazione di scenari serve a individuare rischi e opportunità prima che diventino urgenti.
- Mancanza di sponsor interni – Le innovazioni radicali hanno bisogno di essere sostenute all’interno dell’azienda, serve un team proattivo chele difenda e ne garantisca il progresso anche in presenza di ostacoli. Senza figure di riferimento con potere decisionale, i progetti visionari rischiano di restare confinati nei laboratori o nei documenti di presentazione.
La lezione: la visione come leva strategica
Nel business, “avere visione” non significa indovinare con precisione cosa accadrà, ma preparare l’organizzazione ad affrontare scenari diversi, anche tra loro contrastanti. La vera forza di una visione strategica sta nella capacità di leggere anche i più deboli segnali, interpretare i trend emergenti e tradurli in possibili direzioni concrete prima che diventino mainstream.
Una visione efficace è adattiva, non rigida: parte da un’idea chiara di dove si vuole arrivare, ma ammette la possibilità di ricalibrare il percorso. Significa investire in ricerca, creare prototipi, testare mercati pilota e costruire un portafoglio di iniziative che possano funzionare in contesti differenti. È l’opposto di scommettere tutto su un’unica ipotesi.
Questo approccio richiede anche coraggio decisionale. Spesso le scelte orientate al futuro non portano ritorno immediato e possono incontrare resistenze interne all’azienda, soprattutto quando mettono in discussione modelli di business consolidati. La leadership deve saper bilanciare breve e lungo termine, garantendo al contempo la sostenibilità economica e la capacità di innovare.
La storia della crisi Kodak dimostra che la visione non è una previsione infallibile, ma è necessario attrezzare l’azienda per più scenari futuri possibili. Chi riesce in questo, non solo sopravvive al cambiamento, ma può guidarlo, trasformandolo in un vantaggio competitivo duraturo.