Tsundoku: perché accumulo libri che non leggo (e va bene così)
Domani è Natale. In questi ultimi giorni ho visto crescere la pila dei regali sotto l’albero e, tra fiocchi colorati e carta luccicante, ce ne sono alcuni che riconosco subito. Non perché li abbia aperti di soppiatto, ma per la forma.
Quel classico “mattoncino” rettangolare che non lascia spazio a dubbi. So già cosa c’è dentro: un libro.
E va benissimo così, anzi. Il punto è che quei regali non arrivano in una casa “normale”. Arrivano a casa di uno che accumula libri in modo sistematico, trasversale, senza pregiudizi di genere o formato. Romanzi, saggi, biografie, manuali, libri illustrati, vecchie edizioni trovate per caso. Se esiste, mi interessa. E qui entra in gioco una parola giapponese che mi ha fatto sorridere quando l’ho scoperta: tsundoku.
Tsundoku è quel comportamento semplice e potentissimo che consiste nel comprare libri e poi… non leggerli subito (e forse mai). Lasciarli lì. Sul comodino, sulla scrivania, in libreria, in una pila che sembra vivere di vita propria. Non è una scusa elegante per dire “non ho tempo”. È qualcosa di più vicino a un istinto: porto a casa un libro perché mi chiama, perché mi promette qualcosa, perché in quel momento mi sembra necessario. Anche se poi la quotidianità mi travolge e quel volume resta in attesa.
La cosa interessante è che, per come viene raccontato nella cultura giapponese, lo tsundoku non è per forza un difetto da correggere. Non è il classico vizio da mettere sotto processo da chi mi fa sempre la stessa domanda: “Ma li leggerai mai?”.
La domanda giusta, almeno per me, è un’altra: “Che effetto ti fa averli lì?”. Perché io lo so: mi dà la sensazione che, anche quando ho una giornata piena e la testa altrove, ci sia sempre un pezzo di mondo che posso aprire quando voglio.
Se devo essere onesto, una parte del piacere sta già nell’acquisto (e nel ricevere come regalo un titolo a sorpresa). Entrare in libreria o sulle bancarelle, prendere in mano un volume, leggere la quarta di copertina, aprire e leggere due pagine a caso, sentire la carta. È un gesto fisico, analogico, e forse è proprio questo che lo rende così appagante. Viviamo circondati da cose che scorrono, si aggiornano, spariscono. Un libro, invece, pesa. Resta. Non ti chiede una reaction. Ti aspetta.
E poi c’è il tema della scelta. Io non compro libri “a caso”. Li compro perché, in quel momento, mi interessa quella domanda, quel tema, quella storia. Il problema è che i momenti cambiano più in fretta della mia capacità di lettura. È come se la curiosità corresse più veloce del calendario. E così i libri si accumulano non perché non mi importi leggerli, ma perché mi importano troppe cose contemporaneamente.
A un certo punto ho smesso di guardare quelle pile come un elenco di compiti non completati. Prima mi succedeva. Guardavo la libreria e mi veniva un micro senso di colpa, come se ogni libro non aperto dicesse: “Ti sei illuso”. Ora no. Ora la vedo come una riserva. Una scorta di possibilità. Una specie di dispensa mentale. Oggi posso aprire qualcosa che mi fa ridere, domani qualcosa che mi cambia un’idea, dopodomani qualcosa che mi insegna una tecnica utile. Non devo decidere tutto subito. Non devo consumare tutto subito.
C’è anche un dettaglio che pochi dicono, ma che secondo me conta: lo tsundoku non è solo accumulo, è identità. I libri non letti raccontano comunque cosa mi interessa. Sono una fotografia dei miei desideri, delle mie ossessioni, delle mie fasi della vita che ho attraversato e sto attraversando. Se guardo le mie pile, vedo periodi diversi. Un mese di libri sulla comunicazione e sulle idee. Monografie di grandi fotografi per vedere attraverso il loro obiettivo e ricevere sensazioni. Una serie di romanzi comprati perché avevo bisogno di storie, non di concetti. Una stagione di biografie perché mi interessava capire come ragionano le persone quando devono prendere decisioni vere.
E quando qualcuno entra in casa e vede questi accumuli, succede sempre la stessa cosa: o mi guarda con ammirazione, o mi guarda con sospetto. Raramente resta indifferente. Ma il punto è che non devo dimostrare nulla. Non sto costruendo una biblioteca. Sto realizzando un’area di comfort, un ambiente in cui mi piace vivere. Perché per me i libri hanno una presenza. Non sono solo contenuto. Sono atmosfera. Sono una specie di promessa silenziosa.
In un periodo storico in cui tutto spinge verso la performance, l’efficienza, la produttività anche nel tempo libero, lasciare un libro non letto sul comodino può essere quasi un gesto di resistenza. Non devo trasformare la lettura in una gara. Non devo trasformare la cultura e la curiosità in un KPI.
E poi, diciamolo, spesso quei libri arrivano nel momento giusto. Ti capita di riceverne o comprarne uno spinto da un’intuizione, e poi di aprirlo quando quella intuizione torna a bussare, più matura. Ed è lì che capisci che non era un acquisto impulsivo. Era un investimento sul tuo futuro, anche se piccolo. Anche se non garantito.
A volte penso che lo tsundoku sia semplicemente questo: una forma di fiducia. Fiducia nel fatto che prima o poi arriverà il tempo, o l’energia, o la curiosità giusta per quel momento. E se non succede, non è un fallimento. Perché il valore non sta solo nell’aver letto, ma nell’aver scelto. Nell’aver detto: “Questa cosa mi interessa abbastanza da portarla a casa”.
Quindi sì, domani è Natale e quasi certamente scarterò l’ennesimo libro. Lo annuserò, lo sfoglierò, lo appoggerò in terza fila nel ripiano della libreria che è già in attesa. E non lo vivrò come un problema, anzi, sono convinto che lo tsundoku, senza ironia, sia una delle mie abitudini migliori.
